“Sto lavorando per un piccolo progetto con un medico nutrizionista proprio su questo discorso – ci raccontala nostra amica Isabella, agronoma e fondatrice, con il padre Livio, del progetto Archelogia Arborea di Città di Castello – cioè la biodiversità e le vecchie varietà sono ormai diventate una risposta importante, non più una cosa romantica eccetera: è venuto il momento di dire che, in effetti, la biodiversità è la nostra sicurezza alimentare, tanto più in questo momento. Non è più un fatto di salvare per salvare, ma abbiamo adesso, con questa situazione, la prova provata che, se non avessimo salvato queste varietà, saremmo ancora più mal messi, perché comunque la nutrizione, in questo momento, ha un ruolo essenziale. E non viene detto, perché c’è la corsa all’accaparramento del cibo qualunque, come c’è stato durante il lockdown che la battuta era “non siete malati di covid, ma avete il verme solitario” perché si sono accumulate quantità di cibo inaudito e, tra l’altro, più era cibo spazzatura meglio era, diciamo, perché era quello che si conservava più a lungo, le scatolette eccetera eccetera. Quindi tanto più in questo momento, in cui dobbiamo capire come affrontare questo che è il nuovo futuro, perché non è la contingenza questo del virus, questo è uno dei tanti che ci sono e che verranno nel futuro, quindi noi dobbiamo riportare anche il discorso sulla salute alimentare e la salute alimentare si salva solo ed esclusivamente con un’agricoltura che consideri la biodiversità come un pilastro. Questo è essenziale. Non solo il discorso ovviamente della chimica, perché quella, lo sappiamo bene che cosa significa, pensavano fosse la risposta per la grande produzione, ma né la chimica né la grande produzione sono la risposta per risolvere i problemi alimentari, quindi i problemi alimentari non si risolvono se non si considera la biodiversità come proprio elemento essenziale. Senza la biodiversità non si va da nessuna parte e la biodiversità vuol dire varietà locali, diversità di specie e di varietà perché anche sulle specie è importante perché noi dobbiamo parlare anche di monocolture. Faccio l’esempio da noi dove, ahimè, c’è ancora la monocultura del tabacco, la risposta qual è stata: monocultura di nocciolo perché la Ferrero ha bisogno di 70.000 ettari di nocciolo in tutta Italia e 1000-2000 ettari li ha presi in Umbria. La regione dell’Umbria paga gli agricoltori per coltivare questi noccioli, ma non è il problema del nocciolo, il problema è come viene coltivato: intensivo, diserbo, rimozione di tutto quello che ci sta intorno e così via. Il problema non è la tipologia della coltura. Ormai le vecchie varietà sono diventate un nucleo essenziale. Oltre che un danno dal punto di vista ambientale, perché il monovarietale è comunque una coltura che non ha chance dal punto di vista della risposta agroecologica, perché da qualunque parassita venga attaccata, in ogni caso deve essere super protetta ovviamente con prodotti chimici, concimi minerali che tra l’altro devastano la sostanza organica del terreno eccetera eccetera, ma anche dal punto di vista sociale è una devastazione perché non c’è più il tessuto sociale com’era nell’agricoltura tradizionale, in cui c’erano tante colture diverse, quindi tante tipologie di lavoro diverse, tante possibilità per tante persone diverse di avere accesso all’agricoltura. L’agricoltura intensiva non è neanche più un’agricoltura, agricoltura intesa come coltivazione, rispetto per le stagioni, rispetto per la terra inteso come terreno quindi di lavorare quando è giusto lavorare, tutte queste cose che fanno parte dell’agricoltura tradizionale, della vera agricoltura, queste non ci sono più. Quindi non parliamo più di agricoltura, parliamo di industria. E questo vale in tutti i settori dove c’è il monovarietale. Il mono è sintomo di semplificazione di una coltura, ma non semplificazione per semplificare la vita, semplificazione perché l’industria lavora solo su un canale, su una semplificazione; la complessità che ti può dare l’agricoltura con aspetti diversi, con varietà diverse, quella non è compresa nell’idea industriale, l’industria ha una catena di montaggio. Questo tipo di coscienza non c’è ancora, ce l’abbiamo noi perché ci lavoriamo da anni su queste cose, ma in realtà la coscienza non c’è o se ne parla a sproposito, sono discorsi da treno: “salviamo le varietà perché sono belle, profumate” eccetera, però non si va alla sostanza del discorso che è il tema del modello di sviluppo, perché se continui a dire che questa agricoltura per campare tocca fare così, allora tocca trattare, tocca piantare il nocciolo intensivo. Il nocciolo intensivo, in realtà, viene pagato dalla Comunità Europea, poi però il vantaggio è della Ferrero, agli agricoltori, alla fine, zero, cioè pochi maledetti e subito, un po’ di soldi arrivano, poi basta. Quindi ancora una volta non siamo e non stiamo avendo il coraggio di affrontare questa tematica. In questi giorni sono andati in onda in televisioni alcuni servizi, uno parlava dei prezzi, la grande distribuzione eccetera, ma a livello molto superficiale; un altro era sulle sementi, il Senatore Cappelli, tutto quel discorso che non è bene che tutti abbiano i semi perché poi perdono la purezza: è come se si cercasse di banalizzare, di tenere queste cose superficiali, di non andare a fondo perché poi a fondo scopri tutti gli altarini e quindi io credo che ci sia un aspetto commerciale, intendendo proprio del mercato più becero, che cavalca anche questo cavallo, in questo momento, paure… cavalchiamo il cibo puro, il cibo sano eccetera… Io mi fido poco, insomma. La biodiversità è essenziale, tanto più oggi: chi meglio di noi può dirlo, noi l’abbiamo detto quando non era di moda. Ci hanno trattato come poveri romantici, però secondo me, adesso, possiamo concretizzare queste idee che avevamo perché è così, se non c’è biodiversità non andiamo da nessuna parte. In questo momento in cui si va cercando una maggiore salubrità del cibo e si va a cercare una sicurezza alimentare, in realtà, una delle risposte, una delle grosse parti di queste risposte, è la biodiversità intesa come varietà locali, vecchie varietà: io sulla validità agronomica, economica, ambientale, salutistica, nutraceutica… io ci metto la mano sul fuoco. Io sto lavorando su una vecchia varietà di mela, la mela coppiola, che è bruttissima, ma ha un elevatissimo contenuto di antiossidanti per cui è una mela che non si ossida, cioè viene grattugiata e non si ossida. Ci sono dei frutti che hanno delle caratteristiche, è chiaro che sono scomparsi per un problema meramente commerciale, economico, non perché mancassero le caratteristiche organolettiche eccetera, solamente per un discorso commerciale. Forse varrebbe la pena rivedere questo tipo di commercio. Occorre cambiare il mercato ma occorre cambiare noi stessi. Non so chi cambia prima e chi cambia dopo, però anche noi stessi dovremmo in qualche modo prendere coscienza di questo che abbiamo dentro la testa e dire “no, aspetta un momento, adesso voglio vedere cosa mangio, cosa compro e cosa coltivo”. Però la strada è lunga”.