“La gente quando va in montagna è abituata a vedere i prati verdi, belli, dove ti puoi sedere: quelli lì, senza il pascolo, spariscono. Se si vuole tenere le praterie e gli alpeggi – ci spiega Silvano- il pascolo è la prima cosa, poi c’è da ragionare sulla situazione sociale dei pastori. La pastorizia è gestita in tanti modi, ci sono tanti modi per tenere gli animali: ci sono animali stanziali, transumanti, greggi, grandi greggi… ci sono situazioni al limite del drammatico per quel che riguarda certi modi di vivere, perché i margini reddituali sono diventati più complicati.
I pastori si nascondono più che possono, perché quando si incrociano con persone che non sono dell’ambiente, ancora di più per il fatto che chi alleva le pecore poi uccide gli agnelli, oggi non sono più persone bene accette. E anche con gli altri agricoltori un po’ di problemi ci sono, perché quando i pastori passano con gli animali toccano le colture: è un mestiere che va quasi a perdersi. Non so se andrà proprio a perdersi, in aree più evolute, negli Stati Uniti anche lì ci sono tante zone che vengono utilizzate dai pastori perché c’è richiesta, perché ci sono tanti musulmani che chiedono animali. Sembra quasi una professione che non si sa se esiste, ma dipende dalle zone, perché in Sardegna ci sono ancora tanti pastori, sull’Appennino non ce ne sono più tanti, in Sicilia, in Puglia ci sono, qua nel Nord Italia già da sempre ce ne sono stati di meno, adesso in particolare ben pochi.
È senz’altro un’attività molto marginale. Se non ci fossero più pastori probabilmente i lupi mangerebbero meno pecore, ma diciamo che in pianura la mancanza dei pastori non è che genererebbe dei problemi. Alcune risorse non sarebbero utilizzate, tutto lì. Per quanto riguarda la montagna, la collina, la cosa sarebbe un po’ più problematica, perché certa agricoltura di collina senza l’intervento di un pastore fa fatica a mantenere la fertilità, mentre il pascolamento invernale aiuta a mantenere la fertilità. Per quanto riguarda la montagna, la cosa è più complicata: ci sono molti pascoli utilizzati dalle pecore che non possono essere utilizzati dalle vacche e che quindi, se non vengono utilizzati dalle pecore, vengono ricolonizzati da animali selvatici con tutta una serie di conseguenze, sicuramente cambierebbe un po’ la vegetazione. Alcuni alpeggi probabilmente non sarebbero più fruibili allo stesso modo dalle persone, però un po’ di competizione tra stambecchi, camosci, mufloni, pecore c’è, quindi, se si ritirano le pecore, hanno più risorse i selvatici che si allargano di più. Per queste mille implicazioni, parlare delle conseguenze della scomparsa dei pastori non è una cosa così semplice. L’aspetto più caratteristico è forse quello culturale: una volta la lana era una cosa fondamentale per vestirsi, ora non lo è più e la carne di pecora e la carne di agnello è diventata assolutamente marginale nel consumo degli italiani. La possibilità che sia un’attività che va a perdersi non è così remota. L’unico sistema, ed è sempre stato così, perché un’attività si mantenga è che abbia un senso economico, perché non puoi chiedere a qualcuno di fare il pastore per vivere come un troglodita, c’è magari qualcuno che lo fa, ma non è la norma. Allora se non c’è chi mangia la carne di agnello, se non c’è chi compra la lana, l’attività si va a perdere. Una volta qua era pieno di bachi da seta, quando poi la seta qua non era più possibile produrla in modo economico non ci sono più stati i bachi da seta, non ci sono più i gelsi, ma non è che l’universo si è fermato, è cambiato”.